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La tomba del cane

a cura di Gaetano Barbella
«Il geometra pensiero in rete»

Argota de Brésa

tomba del cane
( Illustrazione 1: Brescia. Tomba del cane - sec.XVIII )

Vivo da 1969 a Brescia, ma non abbastanza per parlare in dialetto locale e tantomeno scrivere, tuttavia capace, a titolare questo breve saggio, argota de Brésa, cioè qualcosa di Brescia, nell’intento di dire, delle cose che altri non han fatto su un curioso monumento noto come «La Tomba del Cane». Davvero singolare, oltre che curioso, questo manufatto edile, poiché molti sono i monumenti nel mondo dedicati a questo animale dell’uomo, fedele per antonomasia, ma non al punto di commemorarlo addirittura con un’arca funebre come quella bresciana dell’illustrazione 1. 

La tomba del cane, o arca Bonomini, è un piccolo curioso monumento in marmo bianco che si scorge anche da lontano sulle falde della collina a ridosso del monte Maddalena, i Ronchi di Brescia. Di notte, dalla città si vede ancora meglio poiché è particolarmente illuminato. Fu ultimata nel 1860 su progetto di Rodolfo Vantini, un valente architetto bresciano, autore di varie opere di notevole prestigio del genere funerario, come il Cimitero Monumentale di Brescia. Il committente di questa opera, Angelo Bonomini, aveva lasciato nel 1837 tutti i suoi beni all’ospedale civile, con la clausola che si costruisse nel suo ronco un monumento funerario per lui e per il suo socio in affari. Ma il sepolcro non accolse mai le spoglie dei due commercianti e come volle la tradizione popolare si sparse la convizione che fu un cane ad esservi seppellito.

Parlare sui cani, che nel caso bresciano può far pensare ad un’occasione offerta dal destino per far fare agli uomini una cosa, addirittura superna, in loro onore, sembra, insieme ad altri, un episodio che fa riflettere sull’amore dell’uomo per essi. E molti han saputo dire cose meravigliose in tal senso che non saprei fare di meglio, ma mi piace affacciarmi agli incerti racconti del passato remoto su questo nobile animale per aggiungere certe idee che mi si son affacciate alla mente.

Ad Ulisse – racconta Omero nell’Odissea – scappò l’unica sua lacrima nel vedere il suo fedele cane Argo morire al suo rientro tardivo ad Itaca. Questo episodio, fa riflettere sull’amore dell’uomo per il cane più che per altri animali. Non solo, ma ciò che più conta è che, conoscendo la diffidenza di Ulisse scevro dal lasciarsi coinvolgere da atti di commozione, sia ferma l’intenzione dell’autore dell’Odissea, il greco Omero, di tener da conto il lato umano quasi che temesse per esso.

Piuttosto c’è da immaginare che si tratti di concezioni filosofiche basate sulle rappresentazioni che si servono di un immaginario fantastico appena retto da fili umani come quello suddetto del cane Argo che muore e di Ulisse, incredibilmente sensibile al pianto. Ottima riflessione, ma quali le possibili connessioni con il resto dell’Odissea non attinente alla realtà concreta dei relativi personaggi storici?

Si potrebbe convenire che si tratti di un’ipotesi del processo evolutivo interiore dell’uomo, proprio, fra i diversi, dell’epoca antica del mito. E poi? Poi, per esempio, l’unica lacrima di Ulisse, può benissimo gemellarsi all’occhio trafitto del ciclope Polifemo. Ancora più rimarchevole il fatto che è «Nessuno», il nome fittizio rilasciato da Ulisse, ad accecarlo.In parallelo, col dolore per la morte di Argo, c’è da immaginare un trasbordo occulto, di qualcosa di strettamente attinente il cane verso il suo padrone, proprio a causa del fatto che in lui si è aperta l’anima.

Ulisse non è mai stato il soggetto disposto fare una cosa del genere poiché era estremamente diffidente. E quando si apprestava ad affrontare l’ignoto, poiché era forte in lui la spinta della ricerca della conoscenza, prendeva sempre le debite precauzioni. Come far turare le orecchie ai suoi compagni e poi farsi legare all’albero maestro della sua nave, pur di sentire le sirene partenopee.

Perciò ora, l’unica lacrima dell’Odisseo in questione, vediamola in quest’altro modo, quasi che fosse il segno tangibile del dolore di un emblematico parto interiore per la concezione di una trasmutata fedeltà, propria di Argo per il suo padrone, perché risolvesse la solitudine di questi dell’esser vecchio e svanito ai suoi cari.  Non certo solo per l’apparente fatto di ricongiungerlo alla sua sposa Penelope ed il figlio Telemaco.

E qui si rivela il mattatore della vita, il mistero, che da perfetto «nessuno» si serve di tutto ponendo in pratica ciò che preventivamente viene disposto dall’uomo stesso nell’intento di servirsi delle forze naturali. La sembianze di «Nessuno» per l’Odisseo servirono per questo scopo e ironia della sorte, per la legge del contrappasso, un ignoto altro «nessuno», questa volta ipotetica sembianza dell’aurea virtù di Argo morente, la fedeltà trasmigra nel «Nessuno» di “prima generazione” per generare qualcosa di prezioso non ancora palese. Ma di che genere di fedeltà si tratta, immaginando che trascenda quella vecchia del cane per il padrone uomo? E qui occorre riferirsi alle moderne cognizioni scientifiche per capire dove intravedere la “fedeltà” in questione e a chi attribuirla.

Dunque si è fatta strada nell’ambito scientifico l’ipotesi che questa nostra Terra funzioni a sistemi gerarchici paralleli. Secondo Nile Eldredge, paleontologo dell’American Museum, Su un piano ci sono i geni, le popolazioni e le specie, che formano gli ordini, poi le famiglie e le classi di animali vegetali. Sull’altro piano troviamo gli «avatara», neologismo per indicare gli organismi di una specie considerandoli non in base alla loro forma ed ai loro geni, ma per il ruolo che hanno come “produttori” e “consumatori” di un ecosistema locale inserito in uno regionale, che a sua volta fa parte di quell’ecosistema globale che a molti piace chiamare Gaia. I sistemi garantiscono la stabilità di Gaia ed il suo funzionamento. Insomma, sulla Terra i grandi giochi verrebbero svolti da sistemi superiori, anziché da singole specie e geni. A questo punto ci si domanda, che ruolo svolgono gli uomini? Essendo la specie dominante, possono essere considerati i neuroni di Gaia? Risponde il noto etologo Danilo Mainardi: «Mi pare che la distruzione della biodiversità che stiamo operando lo escluda. Prima di ambire alla parte dei neuroni, dovremo come minimo renderci conto, con modestia, che i grandi sistemi governano il globo e che noi li conosciamo ancora poco» [1].

A questo punto sembra chiaro che, eccetto l’uomo, tutti gli altri esseri viventi tengono conto, appunto, della fedeltà verso la natura per un corretto ecosistema globale. Di qui il passo è breve per convincerci che la “fedeltà” argotiana precedentemente argomentata attiene alla conoscenza della moderna scienza appena embrionale nella mente dell’uomo nell’Ulisse epocale del mito.

Ecco che il talamo, assimilabile al sepolcro tombale, indicato da Ulisse alla sua Penelope per ricongiungersi, suggerisce la nascita nel futuro di un altro genere di Argo, altrettanto fedele in sé in modo esemplare. Si intravede con questa similitudine il sorgere della scienza della ricerca che comporta all’uomo contemporaneo continuamente nuovi viaggi e peregrinazioni. Di essa, alludendo al suo amore, e più intimamente alla sua Beatrice, dirà poi in modo esemplare il sommo poeta Dante, nel far calare il sipario dell’atto finale della sua Divina Commedia, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ma era «’l geometra che tutto s’affige» in lui che tentava il rientro ad un ideale altra “Itaca” tombale.

L’ARGOT

La curiosità e come la ciliegia, una ne tira un’altra, e poi in tema di cose d’Argo, il cane di Ulisse, e di altre cose del mito a lui legate, Argo (in greco, Άργος) è un nome che si riscontra spesso. Esistono infatti altre quattro figure mitologiche che portano tale nome.

1.      Argo Panoptes (Argo “che tutto vede”) è un gigante con cento occhi. Era anche il fratello della ninfa Io.

2.      Argo era l’eponimo della città di Argos. Figlio di Zeus e Niobe, figlia di Foroneo, successe allo zio Apis come Re di Foronea, che ribattezzò dandole il suo nome.

3.      Argo è il nome della nave usata dagli Argonauti, nonché il nome del suo costruttore. Il vascello venne usato da Giasone nella sua ricerca del vello d’oro. Giasone e i suoi compagni si chiamarono Argonauti dal nome della nave.

4.      Argo era il figlio maggiore di Frisso e Calciope, figlia di Eeta. Argo e i suoi fratelli partirono per far ritorno nel regno del nonno, ad Orcomeno, ma fecero naufragio e vennero salvati dagli Argonauti. Argo e i fratelli Frontide, Melante e Citissoro, aiutarono Giasone e gli argonauti nella loro ricerca, e fecero ritorno assieme ad essi in Grecia.

Come si è visto, da Argo derivano gli Argonauti, ma poi la stessa fa coniare altre parole   come argot, per esempio. Non a caso quindi mi è piaciuto ricorrere alla parola argota in bresciano per titolare questo scritto. Su argot traggo dal libro di Fulcanelli, «Il mistero delle cattedrali», edizione Mediterranee, le seguenti argomentazioni.

I dizionari definiscono la parola argot come «il linguaggio particolare di tutti quegli individui che sono interessati a scambiarsi le proprie opinioni senza essere capiti dagli altri che stanno intorno». È, quindi, una vera e propria cabala parlata. Gli argotieri, quelli che si servono d’un tale linguaggio, sono i discendenti ermetici degli argonauti, i quali andavano sulla nave Argo, parlavano la lingua argotica, navigando verso le fortunate rive della Colchide per conquistare il famoso Vello d’Oro.

Ancor oggi si dice d’un uomo molto intelligente, ma anche assai scaltro: sa tutto, capisce l’argot. Tutti gl’Iniziati si esprimevano in argot, anche i vagabondi della Corte dei Miracoli, — col poeta Villon alla loro testa, — ed anche i Frimasons [2], o frammassoni del medioevo, «che costruivano la casa di Dio», ed edificavano i capolavori argotiques ancor oggi ammirati. Anche loro, i nautes costruttori, conoscevano la strada che portava al Giardino delle Esperidi.

Anche ai nostri giorni gli umili, i miserabili, i disprezzati, i ribelli avidi di libertà e d’indipendenza, i proscritti, i vagabondi ed i nomadi parlano in argot, dialetto maledetto, bandito dalla buona società, da quei nobili che non lo sono affatto, dai borghesi pasciuti e benpensanti, avvoltolati nell’ermellino della loro ignoranza e della loro fatuità. L’argot resta il linguaggio d’una minoranza d’individui che vivono al di fuori delle leggi codificate, delle convenzioni, degli usi, del protocollo, ad essi si applica l’epiteto di voyous, cioè di voyants [3] , e, quello ancor pitì espressivo, di Figli o Bambini del sole. Infatti, l’arte gotica è l’art got o cot (χο), l’arte della Luce e dello Spirito. Si potrebbe credere che questi siano soltanto dei giochi di parole. Noi ne conveniamo di buon grado. L’essenziale è che guidino la nostra fede verso una certezza, verso la verità positiva e scientifica, chiave del mistero religioso e non la mantengano, invece, errante nel labirinto capriccioso dell’immaginazione. Quaggiù non esistono né il caso né la coincidenza, né i rapporti fortuiti; tutto è previsto, ordinato e regolato, e non spetta a noi modificare a nostro piacimento la volontà imperscrutabile del Destino. Se il senso comune delle parole non ci permette nessuna scoperta capace di elevarci, d’istruirci, d’avvicinarci al Creatore, allora il vocabolario diventa inutile. Il verbo, che assicura all’uomo l’incontestabile superiorità e il potere sovrano, esercitato su tutti gli esseri viventi, perde, in questo caso, la sua nobiltà, la sua grandezza, la sua bellezza e diventa soltanto un’affliggente vanità. Ma la lingua, strumento dello spirito, vive di per sé, anche se è solo il riflesso dell’Idea universale. Noi non inventiamo nulla, non creiamo nulla.

Tutto è in tutto. Il nostro microcosmo non è altro che una particella infima, animata, pensante, più o meno imperfetta del macrocosmo. Ciò che noi crediamo di scoprire con lo sforzo della nostra intelligenza esiste già da qualche altra parte. La fede ci dà il presentimento di ciò che esiste; e la rivelazione ce ne dà la prova definitiva. Spesso noi passiamo accanto al fenomeno o al miracolo, quasi lo tocchiamo, ma non lo vediamo neppure, come se fossimo ciechi e sordi. Quante meraviglie, quante cose insospettate potremmo scoprire se sapessimo sezionare le parole, romperne il guscio e liberare il loro spirito, la luce divina da esse racchiusa! Gesù si esprimeva solo con parabole; possiamo noi negare la verità ch’esse ci insegnano? E, nella conversazione corrente, non sono forse i doppi sensi, le approssimazioni, i bisticci di parole o le assonanze che caratterizzano le persone di spirito, felici di poter sfuggire alla tirannia della lettera, e che si mostrano, quindi, a loro modo cabaliste senza saperlo?

L’ERCOLE DELL’AMORE

Sull’amore del cane per l’uomo, capace fino alla morte di dimostrargli fedeltà, e non tanto l’amore dell’uomo per il cane, mi sovviene la favola del X secolo, «Mille ed una notte», che fu anche tradotta in musica nel 1888 in una suite sinfonica da N. Rimskij Korsakov.

Qui la bella e saggia Shéherazade del racconto, non solo, si dimosta abile nel raccontare attrattive ed amabili storie per tenere a bada la “bestia” del suo sovrano preso da insanabili pazzie, ma per profondo amore, ella pur sapendo di rischiare la sua vita, si dispone coraggiosamente in questo modo convinta di farlo rinsavire. Come si sa tutto finisce nel migliore dei modi.

Che incredibili concezioni di poteri “galeotti” di racconti celebri capaci di vita o di morte, che infine dipendono dal tremor di labbra amorevoli, a volte capaci di parole miracolose!

E di «quell’amor che move il sole e l’altre stelle» di Dante sopra citato? E' chiaro che si tratta dell’amore per la Scienza.

Oggi si leva la voce di una “Beatrice” della Scienza, in Rita Levi Montalcini, che incita ad avere «...il coraggio di conoscere» perché la Scienza non ha colonne d’Ercole, pur con i limiti di «innati valori etici» [4]. E come se non bastasse un’altra “Beatrice”, Margherita Hack, svincolandosi anch’essa dal mondo spirituale, esorta l’uomo di scienza a rimboccarsi le maniche perché «La sopravvivenza della Terra è legata al risplendere del Sole. Ma il Sole splenderà per sempre?» [5].

Da parte mia, per concludere, questo è il mio modesto pensiero, argota de Brescia, qualcosa di Brescia in bresciano, appunto. L’uomo di scienza, non ha colonne d’Ercole, ammettiamolo, e potrebbe portare anche il bene, ma se fosse pervaso da un amore simile a quello di Shéherazade, o quello del cane cui è dedicato questo mio scritto, sarebbe lui l’Ercole, il demiurgo da battere di nuova generazione benedetta da Dio, l’Uomo che forse sognava lo stesso Dante Alighieri e che a ragione di ciò era sempre “malinconico e pensoso”.


NOTE:


[1] - Ampi approfondimenti, sulla teoria di «Gaia la terra che vive» e sull’etologo Danilo Mainardi, si trovano su Internet.

[2] - In italiano: teppisti e veggenti. Come si nota la radice dei termini francesi deriva dal verbo voir: vedere. In italiano questo doppio senso è intraducibile (N.d.T.).

[3] - La vita di Gargantua e Pantagruel, di Frangois Rahelais, è un’opera esoteriea, un romanzo d’argot. In esso il buon curato di Meudon si rivela un grande iniziato e un cabalista di prim’ordine.

[4] - Intervista rilasciata al Giornale di Brescia di agosto 2004.

[5] - Intervista rilasciata al Giornale di Brescia di giugno 2002.

 

 

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